Chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta
Basilica di Palazzolo; chiesa della Parocchia di Santa Maria Assunta, si apre su piazza Zamara, tra piazza Roma e la strettoia di via XX Settembre che conduce al municipio; offre le spalle al fiume Oglio che scorre poco lontano. E’ indubbiamente l’edificio più maestoso di Palazzolo, costruito tra il 1751 ed il 1782, attraverso donazioni ed elemosine dei palazzolesi. Il tempio, realizzato su progetto dell’architetto Giorgio Massari di Venezia, è dedicato a Santa Maria Assunta e sorge su quell’area che già nel Settecento ospitava la chiesetta di Santa Maria Maddalena.
La struttura E’ una chiesa a tre navate, con pianta a croce latina, con otto altari all’interno. Il tamburo è sovrastato da una cupola decorata dal pittore Gian Battista Galizzi nel 1938. La facciata esterna, ultimata nel 1846 su progetto dell’architetto Luigi Donegani, abbonda di marmi ed è composta dal grande portale in legno contornato da due nicchie contenenti le statue dei profeti Geremia ed Isaia. In alto le statue di San Giovanni Evangelista e San Paolo, sulla sommità l’Assunta con Maria Maddalena e San Fedele, patrono di Palazzolo. Infine spicca il bassorilievo, opera di Emanali, rappresentante la disputa fra i Dottori. All’interno l’altare maggiore, in marmo policromo, è posizionato al centro del presbiterio; in origine l’abside era arricchita da una tela raffigurante l’Assunzione, opera di Michelangelo Morlaiter del 1773. Al suo fianco c’erano due nicchie con le statue di San Pietro e San Paolo. L’altare venne smontato durante i restauri del 1939-1940 e la pala sostituita con il trittico di affreschi del pittore bergamasco Giovanni Rossi. Sopra l’altare maggiore domina il polittico del Civerchi, opera del 1525. All’interno, a destra del portale principale, si apre l’altare di San Giuseppe, acquisito dalla chiesa dei Domenicani di Brescia nel 1869. Poi l’altare della Beata Vergine del Rosario con la nicchia contenente la statua in legno proveniente dalla Val Gardena (opera del 1937). Contornano la nicchia quindici misteri del Rosario, quadretti del 1773 e a fianco le statue in stucco di San Domenico e Santa rosa da Viterbo, opera di Antonio Gelfi del 1781. Sempre sulla destra si trova l’altare del Santissimo Sacramento progettato dall’architetto Massari di Venezia, con la pala dell’Ultima Cena di Pompeo Girolamo Batoni, preziosa opera del 1785. Le due statue ai lati, Melchisedech e Abimelec, furono realizzate nel 1775 da Antonio Calegari. Continuando sulla destra troviamo l’altare con la statua di San Luigi Gonzaga, eretto nel 1775 dalla Congregazione dei giovani. Nella navata di sinistra, invece, è collocato nella prima cappella il fonte battesimale che in origine era custodito nella Chiesa Vecchia (Pieve) fino al 1780. La cornice in marmo attorno alla tela rappresentante il Battesimo di Gesù (copia dell’opera del Verrocchio che sostituisce il primitivo affresco rappresentante San Giovanni Battista che amministra il Battesimo a Gesù) era in origine sull’altare maggiore. Poi si apre l’altare di San Fermo, nei primi tempi dedicato a Sant’Antonio da Padova; la statua in legno dipinto (1703) venne trasferita dalla Pieve nel 1780. Segue poi l’altare del Santo Crocefisso, anche questo realizzato su disegno dell’architetto veneziano Massari, progettista della chiesa settecentesca. I putti collocati sulla sommità di questo altare sono opera dello scultore bresciano Angelo Calegari, mentre dello scultore Antonio Gelfi sono le due statue laterali che rappresentano Mosé e Davide con la testa di Golia. Proseguendo si trova l’altare dei Santi con la preziosa pala di Grazio Cossali, opera del 1630, che in origine era custodita nella primitiva chiesa di Santa Maria Maddalena, demolita per far posto alla nuova chiesa. A destra dell’altare maggiore un importante organo, opera del cavalier Luigi Lingiardi di Pavia che sostituì nel 1876 il primitivo costruito da Gaetano Antonio Callido del 1776. A sinistra dell’altare maggiore troneggia poi un pulpito in legno realizzato nel 1910 dai fratelli Zanca, mentre i quadretti della Via Crucis sono opera dei fratelli Bertarelli di Milano, del 1905. Le bussole in legno delle porte sono manufatti del 1893 degli artigiani locali Eugenio Magri, Francesco Savoldelli, Luigi Schivardi, Pietro Foresti, Luigi Masneri, Antonio Galignani, coordinati da Battista Tito Tironi. Del 1938 è invece la rappresentazione delle otto beatitudini sulla cupola, opera del pittore Gian Battista Galizzi. Risale agli anni 1939-1940 il rivestimento in marmo degli interni; per l’altare Maggiore vennero utilizzati marmi lapislazzuli, diaspro di Sicilia e rosso di Verona; per gli altari del Santissimo e del Crocefisso i verdi di Varallo, il rosso di Francia, il bianco di Carrara e il rosso di Verona con colonnette di lapislazzuli per il tabernacolo del Santissimo e diaspro di Sicilia per la custodia della reliquia della Santa Croce dell’altare del Crocifisso. Ancora, per gli altari di San Luigi e della Madonna del Rosario fu utilizzato il breccia di Serravezza; per quelli dei Santi e di San Fedele il broccatello di Spagna, onice e macchia vecchia del Canton Ticino, mentre per l’altare di San Giuseppe il rosso di Francia. Gli affreschi dell’abside sono opera del bergamasco Giovanni Rossi, opera commissionata nel febbraio del 1951 dall’industriale Arnaldo Marzoli e si estendono su una superficie di circa cento metri quadrati e si dividono in tre grandi riquadri. In quello centrale è illustrato il dogma dell’Assunta definito nell’anno giubilare 1950; la scena si sviluppa su due piani: in quello inferiore sono raffigurati i dodici apostoli che guardano e alzano le braccia verso il cielo dove la Madonna, quasi sorretta da quattro angeli, viene assunta e al centro si nota la basilica di San Pietro con la cupola e la piazza. Le due parti laterali presentano invece dieci scene che ripercorrono le virtù evangeliche e le opere di carità. Tra le persone raffigurate nell’affresco di sinistra si riconoscono chiaramente il Papa Eugenio Pacelli, il vescovo Giacinto Tredici ed il parroco monsignor Zeno Piccinelli; nel gruppo di destra invece sono ritratti alcuni membri della famiglia Marzoli, fra cui Francesco Marzoli.
La storia Agli inizi del Settecento si iniziò a ventilare in paese l’idea di costruire una nuova e più grande chiesa, per far fronte alle reali esigenze dell’aumentata popolazione, consci delle difficoltà di ampliamento della Pieve dovute anche alla sua ubicazione. L’arciprete Suardo diede il via a quel lungo iter, iniziato con l’individuazione del possibile sito. La scelta ben presto cadde sulla casa del defunto Marco Zamara, attigua alla chiesetta di Santa Maria Maddalena. Lo stesso Zamara aveva già offerto la sua casa alla Confraternita del Suffragio di Mura, proprio per realizzare un nuovo Oratorio a fianco della chiesetta della Piazza. La scelta dell’area venne avvallata tecnicamente anche dall’architetto Marchetti che all’epoca (1743) stava costruendo il Duomo di Brescia. Le due eredi di Marco Zamara, le sorelle Francesca ed Eleonora, vennero convinte a lasciare la loro parte di beni alla nuova chiesa con testamento dell’8 novembre 1743. Il 9 aprile 1748 morì Eleonora Zamara ed il 29 agosto del 1749 la sorella Francesca, dando quindi via libera all’utilizzo del terreno e del casamento. Ma le opinioni nel frattempo erano divenute divergenti e qualcuno pensò ancora di ampliare la Pieve. I sacerdoti palazzolesi a quel punto decisero di convocare un’assemblea dei capifamiglia. Gli Originari furono convocati il 16 novembre 1749 ed il cancelliere comunale, Ercole Urgnani, redisse il testo della deliberazione proposta dai sacerdoti che in sintesi chiedevano di fabbricare una nuova chiesa e di eleggere le persone che si incaricassero di ottenere il permesso dal Governo veneto. La proposta venne approvata con 91 voti favorevoli e tre contrari. Il 27 dicembre del 1749 fece seguito una seconda assemblea a cui presero parte i palazzolesi (escluse le donne ed i ragazzi). La decisione fu di confermare la delibera già adottata a novembre e di nominare quattro persone per ognuna delle tre Quadre con il preciso compito di sovraintendere alla nuova fabbrica. Vennero eletti per Mura il conte Vincenzo Foresti, Martino Folsadri, Stefano Bonomelli e Paolo Galignani, per la quadra Mercato l’arciprete don Angelo Muzio, Rocco Gorini e Bernardo Babante; per Riva il conte Giorgio Duranti, don Giuseppe Galignani, don Francesco Brescianini e Giacomo Romana. Il conte Duranti chiese a don Luigi Avogadro, sacerdote all’Oratorio di Brescia, di interporre i suoi buoni uffici presso l’architetto Giorgio Massari di Venezia. L’iter iniziò a muoversi ma gli eletti, vedendosi in pochi, decisero di allargarsi, chiamando dalla Quadra di Mura Antonio Boschi e Bonaventura Urgnani, da quella di Mercato don Giacomo Omboni e Andrea Maza e dalla Riva Alessandro Piccinelli e Angelo Redoglio. Il 24 gennaio 1750 venne spedita a Venezia la planimetraia dell’area su cui doveva sorgere la nuova chiesa con allegata una nota nella quale si chiarivano le richieste dei palazzolesi: che la nuova chiesa avesse sette altari; che ci fossero i confessionali, il battistero, il pulpito, due cantorie ed il coro; che avesse una sacrestia e quattro camerini per confessare gli uomini; tre porte, di cui una grande, per lasciar passare il baldacchino; che avesse tre navate, ma senza catino e lanterna. L’architetto Massari propose una chiesa a una o tre navate, però con catino e relativa lanterna. La Congrega si riunì per esaminare la proposta dell’architetto e decise di proporre la soluzione della chiesa a tre navate. Con colonne o con pilastri? La soluzione delle tre navate con pilastri venne approvata dagli esperti, gli architetti Girelli e Marchetti, ed accolta anche dai palazzolesi. Il 21 maggio 1750 il Doge Pietro Grimani approvò la costruzione della nuova chiesa, purché i lavori fossero sostenuti da elemosine private e senza contributi pubblici. Il 29 ottobre 1750 diede il permesso per la trattativa privata e agli inizi del 1751 venne riunita una seconda vicinia generale per deliberare l’acquisto della casa Zamara, attigua alla chiesa di Santa Maria Maddalena. Su 112 capifamiglia presenti, 111 espressero parere favorevole. Al termine dell’assemblea Martino Folsadri, uno degli eletti della fabbrica, consegnò a Paolo Galignani, uno dei sindaci della comunità, mille scudi per l’acquisto del casamento e del terreno da utilizzare per la nuova costruzione. Il 10 febbraio 1751 venne perfezionato l’acquisto del sito e contemporaneamente gli eletti richiesero l’autorizzazione alla Curia di poter lavorare anche nei giorni festivi. L’assemblea degli eletti a quel punto decise di allargarsi ulteriormente: vennero infatti chiamati Battista Galignani per Mura, don Giacomo Omboni per Mercato e don Francesco Brescianini per Riva in qualità di questuatori, mentre cassiere venne nominato Antonio Vidari. Assistenti alla fabbrica invece don Pietro Valota, Francesco Casagrande e Giacomo Marella per Mura; don Antonio Omboni, Domenico Vezzoli e Giovan Battista Giori per Mercato e don Nicola Fusari, Paolo Isonni, Bartolomeo Libretti per Riva. Provveditori ai contratti e acquisti furono invece Andrea Maza, Rocco Gorini e Bernardo Babante. Il 24 febbraio 1751 don Pietro Valota piantò una croce nell’ortaglia in riva al fiume, nel punto destinato alla nuova costruzione. A quel punto iniziò l’allestimento del cantiere, mentre l’arciprete Suardo si recava a Brescia per ottenere dalla Curia (dal Provicario provinciale) il decreto permissivo che venne concesso il 21 marzo 1751. Presto una nuova polemica scoppiò in paese, per l’orientamento del nuovo tempio, ma il 21 marzo la Congrega decise di orientare la facciata ad occidente, com’è tutt’oggi. Come capomastro e direttore dei lavori venne individuato Giovan Battista Soldati con la supervisione di Domenico Corbellini che però rinunciò all’incarico, lasciando solo il Soldati. Il 27 marzo 1751 quest’ultimo, con la collaborazione dell’architetto Ascanio Girelli, tracciò gli scavi delle fondamenta. La cerimonia della posa della prima pietra avvenne il 18 aprile 1751. Sul fronte finanziario le scuole del Santissimo Sacramento e del Santo Crocifisso garantirono un versamento annuale in cambio della concessione della officiatura ad un altare realizzato nella nuova chiesa. I lavori iniziavano ogni anno a marzo e terminavano con la fine dell’autunno; a settembre di ogni anno si cercava di racimolare il necessario per saldare i debiti, in modo tale da tenere sott’occhio tutta l’operazione. Alla fine del 1752 venne preparata, nella zona della sacrestia, una fornace per la cottura di mattoni e della calce per risparmiare sulla fornitura dei materiali. E venne avviata il 16 aprile 1753: per il primo anno furono ottenuti ottomila mattoni e ventidue carri di calcina. Il 1753 fu un anno gravato da due lutti: il 15 novembre morì infatti il conte Giorgio Duranti, l’uomo che aveva curato i contatti con l’architetto Massari, e il 1° luglio un operaio di soli 25 anni, Nicolò Armanelli, ucciso dalla caduta di un cassone di sassi che stava alzando lungo un ponte da cantiere. Era la prima vittima del cantiere. Tra il 1754 ed il 1755 vennero acquistate altre casette adiacenti alla nuova chiesa per realizzarvi la piazza antistante (oggi denominata piazza Zamara) e soprattutto la facciata del tempio. Nel 1756 morì un secondo operaio: Bartolomeo Taboni che l’8 agosto cadde nel fiume mentre recuperava sabbia dal fondale. Nello stesso anno venne nominato arciprete don Angelo Muzio e primo canonico don Giuseppe Galignani. Nel 1757 invece rassegnò le dimissioni il capomastro Soldati che venne presto sostituito da Carlo Cropi, il quale richiese un sopralluogo dell’architetto Marchetti per controllare tutta la costruzione, prima di proseguire i lavori. Contemporaneamente si iniziò a cercare legname in Valcamonica per realizzare le coperture della chiesa. Si lavorò a ritmo serrato sino al 1762 quando, per i debiti accumulati tra il 1760 ed il 1761, le opere subirono un forte rallentamento, al punto che il cantiere venne aperto in primavera inoltrata e chiuso molto presto. Grazie ad una serie di lasciti si riuscì a far fronte all’impegno che vedeva ormai in prima fila solo quattro persone, ossia l’abate Faustino Duranti, Giacomo Muzio, Andrea Maza e Rocco Gorini. La costruzione della nuova chiesa terminò verso il 1765, ossia quattordici anni dopo l’avvio dei lavori, ma l’opera non era comunque completa perché mancavano le finiture interne, la realizzazione dei singoli altari, gli abbellimenti ma soprattutto il trasferimento definitivo di tutto l’apparato dalla vecchia alla nuova chiesa. La prima messa nella nuova parrocchiale si celebrò il 6 dicembre 1772, in occasione delle missioni fatte dal celebre don Bartolomeo Dal Monte, anche se la chiesa non è ancora né benedetta né consacrata. Il 1° maggio 1773 venne esposta al pubblico la pala dell’altare maggiore, che rappresentava l’Assunzione della Beata Vergine, opera del pittore veneziano Michelangelo Morlaiter, mentre l’8 gennaio 1774 arrivò a Palazzolo l’organo costruito da Gaetano Antonio Callido di Venezia. Dal 1776 i signori del paese cominciarono quindi a far pressioni per trasferire i propri banchi privati nella nuova chiesa. Il conte Durante Duranti condusse l’azione che scatenò la reazione del popolo che con tanti sacrifici aveva costruito la nuova parrocchiale e che reclamava uguaglianza anche all’interno del tempio. Così dalle polemiche si passò alle satire sino ad arrivare alle denunce ed al processo per sollevazione e tumulto, tanto che nella notte tra il 6 e 7 febbraio 1779 don Vincenzo Rosa, don Gian Battista Masneri e altri palazzolesi vennero arrestati e rinchiusi nelle carceri di Brescia e poi condannati come sediziosi. I banchi dei signori furono quindi sistemati nella nuova chiesa ed il 12 gennaio 1780 si trasportarono dalla chiesa Vecchia alla nuova tutte le immagini sacre e le reliquie, senza alcuna cerimonia solenne e soprattutto senza l’intervento del popolo. Nel marzo dello stesso anno traslocò anche il fonte battesimale ed il 14 maggio si celebrò San Fedele con l’esposizione delle reliquie del santo regalate dal Vescovo di Como. Ma solo il 6 maggio 1782, a trent’anni dall’inizio dell’opera, monsignor Giovanni Nani, vescovo di Brescia, consacrò solennemente la nuova chiesa e fissò per la prima domenica di maggio l’annuale commemorazione. Negli anni successivi vennero via via completati gli interni e abbelliti gli altari. I primi veri restauri della parrocchiale risalgono al 1936, durante il parrocchiato di monsignor Zeno Piccinelli. Tra il 1936 ed il 1941, attraverso la generosità dei palazzolesi, vennero anzitutto sistemate le coperture e le facciate esterne, ma soprattutto la cupola, i cui lavori iniziarono nel 1938. Sulla cupola il pittore Gian Battista Galizzi rappresentò le otto beatitudini: la purezza, la povertà, il perdono, l’espiazione, la dolcezza, il sacrificio, la giustizia e la pace. Sul fregio sottostante l’anello della cupola furono invece dipinte in oro le parole della Sacra Scrittura che si riferiscono alla Madonna, ossia “Vidi speciosam ascendentem cantantibus angelis beatam me dicent omnes generationes”. Nel 1940 si rivestirono di marmo gli interni della chiesa; altri restauri vennero eseguiti tra il 1980 ed il 1982, sulla scorta delle indicazioni di un Comitato pro restauri nato nel 1979 e con la direzione tecnica dell’architetto Gianmarco Pedrali di Palazzolo. I lavori preso avvio il 28 aprile 1980 con il rifacimento, in tre stralci, del tetto e delle facciate, compresa quella principale. Le pietre del sagrato vennero invece sostituite nel 1990, in concomitanza con il rifacimento della pavimentazione e dell’arredo urbano della piazza.
Chiesa di San Sebastiano
Antica chiesa risalente al quindicesimo secolo, si erige nel rione di Mura, all’angolo tra via Palosco e via Bergamo. Attorno alla chiesa venne realizzato, a partire dal 1894, l’oratorio maschile di San Luigi ed il teatro San Sebastiano. All’interno la chiesa presenta un solo altare con una pala che rappresenta la Madonna tra i Santi Fermo, Sebastiano, Rocco e Carlo.
Chiesa di San Pietro
Oratorio campestre trecentesco, si erige lungo la vecchia strada per Telgate, a pochi passi dal cimitero di Palazzolo, nel rione di Mura.
La storia E’ verosimile che la chiesetta di San Pietro sia stata costruita, sul finire del Trecento, sulle rovine dell’oratorio di San Pietro in valico o costruita ex novo non lontano da quest’ultimo oratorio campestre. Il tempietto originario era costituito da un solo locale e munito di un piccolo presbiterio semicircolare con due finestrelle strombate sui lati. Sul finire del Quattrocento la chiesetta venne ingrandita con due portici esterni, la facciata venne chiusa da un muro con un rosone e con una piccola porta, mentre all’interno, tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento, tutte le pareti vennero affrescate, con ogni probabilità quale ringraziamento per grazie ricevute durante le pestilenze. La chiesetta si conservò con questa struttura sino al Settecento. Lo storico Vincenzo Rosa nel 1780 la descriveva come una chiesetta ad un solo altare attaccato al muro concavo come una nicchia e dipinto con pitture del Quattrocento, senza sacrestia e con la facciata orientata ad oriente con una piccola finestra a quattro semicerchi o a croce greca sulla porta in alto. Il presbiterio o coro era semicircolare con ai lati due finestrelle e pitture raffiguranti a destra San Pietro, a sinistra San Paolo e in mezzo la Madonna con un bambino e sopra due angeli e i quattro evangelisti. La descrizione del Rosa lascia chiaramente intendere come gli affreschi votivi fossero stati realizzati durante le pestilenze del ‘400 e ‘500. Non solo, la presenza di animali, in particolare cavalli e buoi, dipinti sulle pareti dell’antico tempietto lascia supporre che l’oratorio servisse pure per la benedizione degli animali. La chiesetta fu per molti secoli jus-patronato della Quadra di Mura e solo dopo il 1805 divenne proprietà della Congregazione di carità dell’ospedale di Palazzolo. Nel 1854 il tempietto subì un radicale restauro, così pure nel 1905; l’ultimo, importante, invece risale al 1977.
La trasfigurazione dell’effige della Madonna: Sul finire del 1804 due contadini palazzolesi, entrati per caso nella chiesetta, osservarono che l’effige della Madonna,, che normalmente si presentava rovinata in più parti e slavata di colore, appariva fresca e di colori vivi come appena dipinta. Ciò si verificava solo per la Madonna e il Bambino Gesù e non per i santi dipinti ai lati. Vennero quindi avvertite le autorità religiose e civili, mentre la notizia si spargeva e a migliaia i fedeli accorrevano da ogni parte. Le trasfigurazioni si succedevano a qualsiasi ora del giorno e con qualsiasi tempo. Venne quindi abbattuta la facciata della chiesetta per permettere una maggiore visibilità all’immagine mentre si iniziava a gridare al miracolo. Vista la grandissima affluenza di persone di ogni ceto, età e sesso, le autorità iniziarono a preoccuparsi per il sorgere di problemi connessi all’ordine pubblico e inviarono alcune guardie. Nacquero inoltre diatribe su chi fosse delegato a raccogliere ed amministrare le elemosine. Avvisato dal parroco, il Prefetto inviò, il 24 febbraio, un suo delegato che indagò e stese poi un rapporto in seguito al quale lo stesso Prefetto ordinò di procedere, in accordo col Vicario vescovile, ad un lavaggio chimico dell’immagine. Dopo aver consultato un professore del liceo di Brescia che suggerì di usare per il lavaggio del vetriolo allungato con acqua, nella notte tra il 3 e il 4 marzo 1805, furtivamente, il delegato del Prefetto, il vice cancelliere della Curia ed il parroco di Palazzolo entrarono nella chiesa e procedettero al lavaggio. Ma, man mano che l’affresco veniva ripassato dalla soluzione acida, comparivano sempre più vivaci i colori, in modo spettacolare. Due volte venne ripassata la soluzione ma il risultato rimase uguale. Quindi desistettero, pensando di ripetere l’esperimento la notte seguente, ma la notizia si era ormai sparsa e la chiesetta fu praticamente presidiata da numerosi fedeli e quindi dovettero desistere, osservando solamente che l’immagine risultava nuovamente velata. La voce di ciò che era successo in quella notte si sparse e quindi si ritornò a parlare di un ulteriore miracolo, aumentò il fanatismo del popolo che continuò ad accorrere nonostante i vani ordini restrittivi del Prefetto. Ciò convinse alla fine le autorità civili a ricorrere a rimedi estremi: la notte tra il 9 e il 10 aprile 1805 una cinquantina di soldati a cavallo circondò la chiesetta e una squadra di muratori, ingaggiati a Chiari, demolì il coro della chiesa e distrusse tutti gli affreschi. Grandissimi l’indignazione e il dolore di tutta la popolazione. Ciò che restava della chiesetta venne trasformato in una casa d’abitazione privata, che però rimase sempre chiusa. Il 6 maggio 1814 il Podestà di Palazzolo invitò la Congregazione di carità a rimettere nell’antico stato la chiesetta, sistemandola e facendo ridipingere l’immagine della Madonna, cosa che fu fatta in breve tempo. Il Prefetto, venuto a conoscenza del fatto, si dichiarò contrario alla riapertura e proibì la benedizione e ci vollero parecchi mesi prima che la situazione si appianasse.
Chiesa di Santa Maria in Cologne
Chiesetta antichissima, situata a quasi tre chilometri da Palazzolo, sulla strada per Cologne.
Nel corso dei secoli deve aver subito demolizioni e rifacimenti, uno di questi nel 1434 e l’ultimo in questi ultimi decenni che l’hanno decisamente alterata e rovinata. Sono spariti i pregevoli dipinti che la ornavano e dell’antico sono rimasti solo il contorno della porta principale, le basi delle finestre ed il campaniletto a bandiera.
Chiesa di San Giovanni Battista
Chiesa della quadra di Mura, situata all’estremità di via Gorini, a fianco della torre rotonda le cui origini risalgono al IX-X secolo dopo Cristo. Il complesso architettonico attuale di San Giovanni, costituito dal corpo principale della chiesa stessa, dalla comunicante cappella del Suffragio dei morti e dall’adiacente cappella di San Rocco, sorge e domina tutta la porzione storica della quadra di Mura.
La storia La chiesa di San Giovanni non fu mai sede pievana perché chiesa vicinale, dipendente con ogni probabilità dalla Pieve di Telgate o di Caleppio, o addirittura una diaconia minore di una delle due Pievi bergamasche. Presto però ottenne una certa autonomia, ma non fu, quasi certamente, una chiesa battesimale perché le chiese vicinali ottennero il battistero solo sul finire del XIII secolo, quando Mura già era unita a Palazzolo. La chiesa di San Giovanni non riuscì inoltre a perfezionare l’evoluzione avuta dalle altre chiese vicinali limitrofe, anzi venne aggregata alla Pieve di Palazzolo, perdendo, sino al 1459, tutte le funzioni sacramentali. Unica eccezione le sepolture degli abitanti di Mura che avvenivano ancora tra il cimitero annesso alla chiesa e la chiesa stessa. Sino al 1459 nessun sacerdote fu titolare e l’unica celebrazione pare avvenisse solo nella ricorrenza del santo a cui era intitolato il tempio. Ma nel 1459 i Vicini di Mura si attivarono per ottenere un cappellano fisso, istituendo una dote beneficiale. L’autorizzazione richiesta non arrivò dal vescovo di Brescia ma direttamente dal Papa, Pio II, a cui i Vicini di Mura si erano rivolti, e fu chiamato per questo motivo il sacerdote titolare della chiesa non cappellano bensì rettore. La nomina dei rettori era di competenza papale e per questa ragione venivano nominati direttamente da Roma, previo parere favorevole dei Vicini di Mura.
Rettori Il primo rettore di San Giovanni fu Tonino de’ Celeris eletto il 20 gennaio 1460 e rinunciatario il 25 luglio 1501. Poi Alessandro Donesani eletto il 25 febbraio 1502 su proposta di Papa Alessandro VI, che rinunciò il 2 giugno 1531 dopo essere stato affiancato negli ultimi anni da Valerio Duranti. Il 17 ottobre 1531 su candidatura di Papa Clemente VII e su accettazione dei Vicini di Mura del 12 dicembre 1531, venne nominato rettore Gualdrino Guareschi de’ Conti che, dopo un primo allontanamento nel 1580, rinunciò e gli succedette Agostino Cerutti, in carica sino al 1587. Il 2 agosto dello stesso anno venne nominato rettore Gian Paolo Urgnani che morì nel 1648, anno in cui arrivò Carlo Curtelli che scomparve il 20 settembre 1700. Poi negli anni a venire si succedettero: dal 29 settembre 1700 al 25 dicembre 1705 Luigi Tamanza, Ambrogio Mariani dal 10 gennaio 1706 al 1741, Giuseppe Antonio Urgnani dal 1741 al 12 gennaio 1786, Vincenzo Urgnani dal 20 gennaio 1786 al 25 aprile 1805, Luigi Zamara dal 1805 al 29 settembre 1806, Giovanni Torazza dal 26 dicembre 1806 al 28 novembre 1836. Il 26 dicembre dello stesso anno venne nominato rettore Lanfranco Bonari che riunciò nel 1854, lasciando la rettoria a Francesco Morandi che morì il 9 agosto 1858. Luigi Schivardi, nominato il 15 marzo 1860, rappresentò l’ultimo rettore eletto dai Vicini di Mura, rimase in carica sino al 17 giugno 1904. Per dieci anni la rettoria rimase vacante, fino al 1914 quando per nomina vescovile, e non più papale, divenne rettore Alberto Morandi e alla sua morte, il 10 settembre 1961, venne nominato, il 6 giugno 1962, don Benedetto Galignani, ultimo rettore di San Giovanni.
Struttura della chiesa La Chiesa in origine sorgeva su un terrapieno e le mura di Mura (risalenti ad un periodo compreso tra il X e l’inizio del XIII secolo) imperniate sulla grande torre rotonda, sbarravano alle loro spalle, a nord, ogni ulteriore passaggio. Dalla quattrocentesca “Contrata Platee de Mura” (l’attuale piazza Corte Mura) si accedeva alla chiesa attraverso una strada a gradoni che si interrompeva quando giungeva a livello del sagrato, il quale si estendeva a livello del terrapieno stesso ed era quindi all’ombra del torrione di Mura. Il sagrato era chiuso, dove cessava la gradinata, mediante un muraglione, che doveva sorreggere il terrapieno del sagrato stesso, nel quale si apriva un grande portone. Dalla via a gradinate, che si arrestava al portone del sagrato, si dipartiva un’altra strada che, costeggiando il lato sud del terrapieno del cimitero di Mura, circondava il lato est della chiesa costeggiando le fondazioni del campanile e dell’abside primitivi. La chiesa era munita del suo campanile che sorgeva presumibilmente sul lato sud dove si estendeva anche il cimitero. La Chiesa era costituita da un’aula rettangolare orientata secondo l’asse ovest-est, con un’abside semicircolare ad est e l’ingresso principale ad ovest. I lati lunghi a sud ed a nord erano segmentati da quattro grosse lesene per lato. Tra la prima e la seconda lesena e tra la terza e la quarta si aprivano finestre rettangolari strombate verso l’esterno. La prima lesena procedendo in direzione ovest-est (scomparsa da secoli) doveva sorgere al centro del poderoso arco a sesto acuto in mattoni (usato come controspinta), ancora visibile sulla parete sud; identico arco sorgeva sulla parete nord in posizione simmetrica. Il tetto doveva essere a capanna e l’interno segmentato da quattro grandi archi a sesto acuto in muratura che dovevano imperniarsi sulle quattro coppie di lesene. All’interno c’erano tre altari: l’altare maggiore al centro dell’abside e due altari laterali situati tra la seconda e le terza lesena, rispettivamente a sinistra e a destra della porta d’ingresso del sagrato. In seguito a vari rifacimenti nei secoli, l’aspetto della chiesa si modificò. Scomparve la strada a gradoni che divenne l’attuale via Gorini che sale sino a piazzale Mazzini, affossata rispetto al terrapieno su cui sorge la Chiesa e al terrapieno prospiciente su cui sorge l’attuale complesso dell’Ente Galignani. Scomparvero il sagrato e il muraglione che lo racchiudeva e pure le mura che la cingevano a nord. Dove sorgeva il campanile (l’attuale è stato edificato nel Settecento) si trova un piccolo locale utilizzato, nei secoli scorsi, come sacrestia, sorto probabilmente proprio su quello che restava dalla decapitazione del campanile stesso. Tra l’inizio e la metà del Settecento, contemporaneamente alla decapitazione del torrione di Mura, la chiesa di San Giovanni subì ulteriori restauri, con l’utilizzo proprio dei materiali ricavati dalla decapitazione (la copertura in legno e cotto del torrione risale infatti al 1903-1904). La chiesa primitiva venne completamente vuotata all’interno, fu demolito il tetto a capanna, vennero demoliti gli archi a sesto acuto che poggiavano sulle quattro coppie di lesene, fu aperta la parete nord in corrispondenza della cappella del Suffragio affinché questa comunicasse direttamente e per tutta la sua parete sud con la chiesa di San Giovanni e divenisse quindi un corpo unico con la stessa. Prima probabilmente la cappella comunicava con la Chiesa solo attraverso una porta ricavata tra la seconda e la terza lesena del lato nord della Chiesa. Venne poi demolita completamente l’antica facciata e la prima coppia di lesene fu abbattuta così da permettere l’avanzamento della nuova facciata in direzione dell’antico sagrato per oltre tre metri; venne decapitato l’antico campanile che si sviluppava sul lato sud della Chiesa; la cella a volta esistente a livello del suolo fu sventrata, la volta distrutta e all’interno del moncone superstite dell’antico campanile fu innalzato lo spigolo sud del nuovo catino dell’abside; la Chiesa fu sopraelevata di quasi il doppio della sua primitiva altezza; fu costruito un nuovo più alto, ma più sottile, campanile sul lato nord; fu rifatto in sezione poligonale il coro-presbiterio della chiesa e si diede un nuovo assetto architettonico all’interno della stessa, che è poi quello che si vede oggi. L’avanzamento della facciata della nuova chiesa in direzione ovest fu fatta a scapito dell’antico sagrato che già era stato sacrificato per il passaggio della nuova strada di San Giovanni verso la via per Grumello. Per sicurezza architettonica furono in quella occasione costituiti i due potenti arconi di controspinta rimessi in evidenza, durante i restauri del 1966, sia sul lato nord che su quello sud della Chiesa.
Cappella di San Rocco Nel 1485 una grave epidemia, forse uno strascico della pestilenza iniziata l’anno prima in Brescia, colpì Palazzolo, in particolare la Quadra di Mura che fu posta in quarantena. In questo clima di terrore maturò la decisione di elevare un oratorio a San Rocco, santo delle pestilenze, presso la chiesa di San Giovanni. La cappella venne costruita addossata al lato sud della primitiva chiesa vicinale tra la terza e la quarta lesena della sua ripartizione esterna. Il muro di levante venne accostato all’antico campanile, collocandosi così nell’area più elevata del piccolo cimitero di Mura. Venne chiusa l’antichissima finestra che si apriva tra le lesene e di questa sono stati ritrovati i resti durante i restauri iniziati nel 1966. La cappella presentava così la forma di un oratorio rettangolare chiuso da tre lati e aperto ad ovest mediante un arco a sesto acuto che poggiava su due grosse mensole di pietra che fungevano da capitelli. L’arco fu rinforzato per mezzo di due tiranti in legno a bordi lavorati e uno di questi è tuttora visibile, mentre l’altro, oggi scomparso, appoggiava direttamente sulle due grandi mensole di pietra. Venne sostituito nel 1782 da un elemento metallico. Al centro della parete est si trovava probabilmente un altare ligneo così da essere più facilmente trasportabile e accanto è visibile, ancora oggi, una piccola nicchia ricavata nella parete. Questa aveva, in origine, un basamento in pietra arenaria, sporgente dalla verticale del muro per una trentina di centimetri, con un foro al centro: si trattava forse di un “lavatoio” per le mani del sacerdote officiante, oppure conteneva una cassetta per elemosine. Sotto il pavimento vennero predisposti quattro loculi (rimossi con i lavori del 1966): profondi circa un metro e coperti con voltini in mattoni e conci misti a calce. Probabilmente la cappella continuava con un porticato aperto su tutti i lati, che copriva lo spazio compreso tra la seconda e la terza lesena del lato sud della chiesa vicinale. Di questo porticato restano ancora oggi visibili i resti dei pilastri che dovevano reggere il tetto, addossati al corpo della chiesa. La cappella era sorta con lo scopo di essere utilizzata per le celebrazioni all’aperto, poiché, in tempo di pestilenza, le funzioni religiose in ambienti chiusi erano vietate. La struttura originale della cappella fu mantenuta e ben curata fino al 1580 circa quando San Carlo Borromeo ordinava, inutilmente, la chiusura dell’arco ogivale per mezzo di un muro di tamponamento. Intanto tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento la chiesa venne ampliata con l’aula rettangolare a nord e la torre campanaria e solo nel 1782 si adempì l’ordine di San Carlo e nel muro di tamponamento furono aperte due finestre con grata sui lati di una porta centrale che metteva in comunicazione l’antico cimitero con l’interno, dopo aver disceso due gradini in pietra serena di Sarnico. Durante queste trasformazioni venne posto il tirante in ferro in sostituzione al travetto di legno. Si trasformò inoltre la cappella in una più funzionale sacrestia, che venne sostituita dalla nuova sacrestia, aggiunta in un secondo tempo e posta a nord. Ciò si dimostrò dannoso soprattutto per l’impianto pittorico, infatti dobbiamo ricordare che qualche anno dopo la costruzione della cappella era stato eseguito il grande affresco della parete est, anni più tardi il polittico della parete sud e più tardi ancora quello della parete nord. Quest’ultimo venne parzialmente distrutto per inserire un armadio a muro e anche il grande affresco della parete est fu mutilato in parte per aprire una porta di accesso atta a collegare il locale retrostante (basamento dell’antico campanile) con la cappella, e tuttora esistente. La chiesa di San Giovanni subì nel corso del XVIII secolo numerose trasformazioni architettoniche che sconvolsero gli equilibri statici degli antichi muri della chiesa e ciò contribuì al peggioramento delle già precarie condizioni in cui versava la parete est della cappella, in corrispondenza del punto di sutura di questa con lo spigolo sud-ovest dell’antico campanile. L’allargamento della lesione raggiunse dimensioni tali, a metà degli anni Sessanta, da permettere il passaggio del pugno di un uomo. Queste condizioni disastrose in cui versava la cappella portarono alla decisione di ricorrere a dei restauri che iniziarono nel 1966. La proposta di progetto, elaborata in seguito ai suggerimenti della Soprintendenza ai Monumenti, puntava all’idea di restituire al monumento le sue originarie caratteristiche formali volendo riportare la struttura esistente alla sua primigenia dignità architettonica, ricreando uno spazio interno ben integrato con uno spazio esterno funzionale. Con ciò si voleva tentare di reinserire il monumento storico nel suo ambiente originario attraverso una riprogettazione esterna dello spazio, in modo tale che fosse di supporto alla cappella stessa, fornendola di una sua valorizzazione dal punto di vista urbanistico. Infatti il sito si presentava chiuso, abbandonato e quindi non fruibile dalla cittadinanza. Il primo passo fu quello di abbattere il tamponamento del Settecento, riportando la cappella alla sua struttura originaria. Si voleva tentare di restituire al manufatto storico la sua primitiva identità, cercando di ristabilire la sua unità primigenia, sia attraverso la restituzione della sua antica funzione di “involucro-vetrina” per gli affreschi riaprendola verso l’ambiente urbano di Mura, sia riportandone alla luce l’impianto pittorico. Questo diaframma era stato una delle cause dell’ulteriore aggravamento delle condizioni degli affreschi, i quali erano soffocati dall’accumulo di umidità e dalla cattiva ventilazione interna. Non venne però permessa dalla Soprintendenza ai Monumenti l’applicazione di un serramento a vetri, ma venne suggerita la messa in opera di un semplice cancello in ferro in sostituzione del tamponamento Settecentesco. È stato necessario eseguire opere di restauro atte a garantire la stabilità strutturale della cappella, attraverso sottomurazioni e cordoli sottotetto. Venne inoltre sostituita alla vecchia copertura una nuova realizzata in travi lignee e coppi per garantire una migliore impermeabilizzazione e per bloccare le dannose infiltrazioni di acqua che penetravano attraverso le vistose sconnessioni del vecchio tetto.
La cappella del Suffragio dei morti Nel 1587 la Quadra di Mura decise di istituire una confraternita deputata ad accompagnare all’ultima dimora, nel cimitero annesso alla chiesa di San Giovanni, i morti della Quadra stessa. Fu istituita così la “Confraternita del Suffragio dei morti”. La Confraternita ebbe una sua particolare cappella che venne costruita in aderenza al lato nord della chiesa stessa. Non esiste nessun dato circa la precisa epoca di costruzione della cappella. Per dare una uscita nord alla contrada di San Giovanni Evangelista, che fino ad allora era stata una via cieca e terminante contro le mura, era stato demolito un certo tratto delle mura stesse, rispettando il torrione, e sull’area di questo tratto di bastione, probabilmente usando i materiali di demolizione, era stata fabbricata la primitiva cappella del Suffragio. Questa, pur occupando la stessa area di quella attuale, era di gran lunga meno alta; non superava probabilmente l’altezza del tetto a capanna della primitiva chiesa di San Giovanni ed era munita di due finestre, ora murate, prospicienti il torrione e di altre due dal lato opposto, pure murate. Non aveva alcuna apertura sul lato prospiciente il torrione e la porta attuale fu aggiunta alla fine del Seicento. La cappella fu dotata di un altare che fu persino dichiarato altare privilegiato da Papa Paolo V (1605-1621), come è chiaramente indicato da una tavoletta lignea appesa al montante ovest del grande arco che separa la cappella dalla chiesa. Grazie ai lasciti di Andrea Muzio e Maria Corsaioli, intorno al 1673 iniziarono i lavori di rifacimento e sopraelevazione della cappella. Fu infatti sopraelevata di quasi il doppio della primitiva altezza; furono murate le quattro finestre più basse e ne furono aperte altre cinque molto più in alto (una finestra, quella che si apriva sul lato nord, fu quasi subito murata); si iniziò a dare un nuovo assetto architettonico anche all’interno e fu aperta una porta, ancora oggi esistente, per dare accesso alla cappella anche dal lato ovest. Tutti questi lavori furono portati a termine entro l’anno 1689: tale è infatti la data che si legge in un cartiglio sul lato nord della cappella, appena al di sotto della trave principale del tetto.
Gli affreschi Nella Chiesa di San Giovanni sono posizionati tre altari. Quello maggiore, dedicato a San Giovanni Evangelista, un tempo, aveva una pala divisa in diverse nicchie, su due piani, e con diverse statuette di santi, il tutto di legno dorato, di una doratura vecchia, meravigliosa per la sua bellezza, attribuito al Borgognone. Questa pala venne però venduta nell’Ottocento e rimpiazzata con una tela del palazzolese Giovanni Rampana raffigurante San Giovanni Evangelista. Gli altri due altari laterali sono dedicati uno alla Beata Vergine Addolorata e l’altro, di fronte, a San Gerolamo Emiliani. Fino al 1935, però, quest’ultimo era dedicato a Sant’Antonio da Padova, fino a quando don Alberto Morandi, direttore dell’orfanotrofio maschile Galignani e rettore di San Giovanni (avendo il papa Pio XI proclamato San Gerolamo Emiliani patrono universale degli orfani e della gioventù abbandonata), incaricò l’allora ventenne Matteo Pedrali di realizzare un ciclo di affreschi imperniato sulla vita di San Gerolamo Emiliani, santo guerriero, convertito alla cura dei malati. Di fronte a questo ciclo di affreschi, è posta la pala nota come “La deposizione dell’Addolorata”, che da circa trecento anni dà splendore alla comunità per il messaggio spirituale ed artistico. Non si trovano documenti comprovanti la provenienza dell’opera, l’autore e l’offerente. L’opera mostra in alto cinque angioletti, due piangenti e tre di coreografia, a sinistra le tre croci; nel centro la Vergine che sostiene Gesù deposto ed alla sua sinistra presumibilmente San Giovanni che bacia la mano di Gesù. In basso a sinistra lo scorcio di un’urna sepolcrale e davanti un angioletto con nella mano un chiodo della crocifissione. In primo piano gli attrezzi per l’esecuzione ed una corona di spine. L’opera è stata eseguita affinché fosse una pala d’altare. È descrittiva dell’avvenimento della morte di Gesù nei particolari essenziali. Il personaggio più importante è la madre che esprime il dolore e la desolazione per la morte di suo figlio. Composizione sobria da contemplarsi per i suoi colori purissimi che dal cielo scendono irrorando tutta l’opera e che rivelano la maestria del pittore. L’altare della cappella del Suffragio è invece munito di una grande pala commissionata al celebre pittore Andrea Celesti (1637-1711). La pala misura circa metri 4 x 6 e raffigura la Vergine che intercede presso Dio la liberazione delle anime purganti. Lo stesso motivo è ripetuto in un bassorilievo marmoreo del paliotto dell’altare pure costruito con marmi policromi e probabilmente contemporaneo all’ingrandimento della Cappella stessa. Forse contemporanei, o di poco posteriori alla pala del Celesti, ci sono altri due dipinti situati, uno a destra e l’altro a sinistra dell’altare, appesi rispettivamente alle pareti ovest ed est della cappella stessa. Sono opere che qualcuno vorrebbe attribuire al Celesti, ma sono decisamente di mano di gran lunga inferiore. Il dipinto sulla parete ovest raffigura la morte di Maria Vergine, quello sulla parete est raffigura la morte di San Giuseppe. Sono dipinti su tela di grande dimensioni.
Affreschi di Matteo Pedrali Ciclo di affreschi del pittore Matteo Pedrali (1913-1980) che ripercorre i momenti più salienti della vita e delle gesta di San Gerolamo. Fra il 1933 ed il 1935 l’artista compose la storia del santo in sei episodi: i primi tre, a sinistra, attengono alla vita del santo, gli altri invece sono ambientati nel territorio bergamasco. Nel primo riquadro Gerolamo Emiliani accoglie gli orfani dopo la pestilenza del 1528; nel secondo gli stessi bambini lo accompagnano in processione quando, lasciata Venezia, si muove per la città orobica; nel terzo, tornato nuovamente nella città lagunare, insegna la dottrina cristiana. Nel primo riquadro a destra San Gerolamo riunisce attorno alla mensa i suoi ospiti; nel secondo visita i contadini che mietono il grano; infine nel terzo lava i piedi ai suoi fedeli prima di lasciarli. La peculiarità dell’affresco in San Giovanni si racchiude nei personaggi: questi hanno il volto e le sembianze, facilmente identificabili, di cittadini palazzolesi. Prima di mettersi al lavoro nell’antica chiesa di Mura Matteo Pedrali abbozzò l’opera su cartoni per affresco, oggi veri e propri disegni a matita di notevoli dimensioni custoditi nel municipio di Palazzolo. Durante i primi anni gli affreschi realizzati dal giovane artista erano finiti al centro di una vigorosa polemica.
Auditorium di San Fedele
L’Auditorium di San Fedele, in piazza Tamanza, a due passi dalla chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta, all’ombra della Torre del popolo ed a confine con il teatro Sociale.
La storia Tre chiese si sono sovrapposte nel corso dei secoli. La più antica chiesa, non ancora pievana ma vicinale e dipendente con ogni probabilità dalla pieve di Coccaglio, sorse sul finire del dominio longobardo o agli inizi del periodo carolingio (quindi negli ultimi anni del IX secolo); la seconda chiesa più vasta e imponente fu invece una chiesa romanica costruita per offrire maggiore dignità al pievato palazzolese sorto presumibilmente attorno al Mille, quando con la seconda pace di Mura del 1198 alla pieve palazzolese venne aggregata la chiesa vicinale di Mura, sino ad allora bergamasca. La terza infine sorse sul finire del XV secolo ed è l’attuale “chiesa vecchia” nella cui costruzione sono state inglobate numerose strutture della precedente chiesa romanica che vantava maggiore ampiezza sui lati settentrionale, meridionale ed orientale. Tutte e tre le chiese avevano identico l’epicentro: la prima chiesa infatti si estendeva in corrispondenza dell’attuale navata centrale della “chiesa vecchia”, con l’abside posizionata appena prima della gradinata dell’attuale presbiterio. La seconda chiesa, quella romanica, seguì lo stesso andamento con due absidi poste a metà dell’attuale presbiterio. La terza chiesa continuò ad avere lo stesso orientamento, seppur con un’abside ancor più arretrata in direzione orientale. Tutte vantavano l’impianto absidale in posizione orientale e nessuna delle due chiese precedenti aveva porte di ingresso sul lato orientale.
La prima chiesa carolingia La prima chiesa sorse presumibilmente sul finire del IX secolo, in coincidenza quindi con la costruzione della “rocha magna”, il Castello, e di poco posteriore ai primi insediamenti stabili della futura città di Palazzolo. Non a caso la tecnica di costruzione era la stessa utilizzata per la rocca, ossia ciottoli di fiume cementati con calce, ad eccezione di pietre squadrate o di materiale laterizio di provenienza romana. Gli scavi hanno permesso di mettere in luce tutto l’impianto absidale della chiesa carolingia: l’abside era costituita da due muri concentrici a semicerchio distanziati tra di loro di circa due metri; nella concavità dell’arco più interno era posizionato l’unico altare mentre fra le concavità della parete absidale più esterna e la convessità della parete più interna si snodava un corridoio semicircolare utilizzato come “coro” della chiesa. Il catino concavo del muro più esterno era forse tutto affrescato: certamente vantava una fascia decorativa ad affresco che correva tutto intorno alla base del muro. La capienza di questa chiesa era piuttosto esigua: la larghezza corrispondeva a quella dell’attuale navata centrale, in lunghezza doveva estendersi sino a tre metri circa dal muro occidentale di chiusura della chiesa attuale. Si presume poi che l’entrata fosse sul lato occidentale. La chiesa, essendo stata realizzata come chiesa vicinale e non battesimale, non doveva avere il battistero esterno, ma probabilmente aveva un campanile. Intorno alla chiesa carolingia c’erano antiche tombe individuali, risalenti tra il IX ed il XII secolo. Sul lato settentrionale della chiesa, ed esternamente ad essa, doveva esserci un ambulacro, forse foggiato a portico di chiostro, ad un livello superiore rispetto a quello della chiesa; dovrebbe corrispondere all’attuale navata settentrionale della chiesa. Attraverso questo ambulacro era possibile recarsi dalla porta della chiesa carolingia al cimitero, percorrendo il fianco settentrionale dell’edificio. Intorno all’anno Mille ci fu una rivoluzione nella vita pastorale della chiesa palazzolese: la chiesa da vicinale, quindi dipendente da un’altra pieve, probabilmente quella di Boccaglio, divenne sede pievana e da essa cominciarono a dipendere alcune chiese vicinali dei centri rurali limitrofi. La chiesa primitiva dovette quindi trasformarsi in chiesa battesimale, con l’aggiunta quindi di un battistero esterno. Alla fine del XII secolo, con la seconda pace di Mura, nel 1198, la quadra dei muraschi entrò a far parte integrante del comune e della pieve palazzolese. A questo punto la chiesa carolingia non era più idonea alle nuove esigenze religiose di una popolazione di fatto raddoppiata e pertanto si decise di demolirla e costruire la seconda, più ampia.
La seconda chiesa pievana La nuova chiesa non poté allargarsi sul lato settentrionale per la presenza dell’ambulacro-chiostro che non si voleva sacrificare essendo indispensabile per l’accesso al cimitero. Quindi le fondazioni del muro settentrionale della chiesa romanica coincisero con quelle della precedente e le sostituirono. Sul lato orientale invece la chiesa romanica si estese per oltre tre metri rispetto alla chiesa carolingia e qui furono poste le fondazioni dell’impianto absidale. Venne quindi realizzata una grande abside semicircolare, affiancata, a settentrione, da un’abside più piccola e di pari forma, mentre dal lato opposto non venne costruito un lobo absidale similare per carenza di spazio. A pendant alla piccola abside di nord-est venne costruito un poderoso torrazzo a sezione quadrata, alto molti metri. Sul lato occidentale la seconda chiesa palazzolese si estese di circa tre metri rispetto alla precedente. Come muro di chiusura venne utilizzata una precedente muraglia costituita da grandi ciottoli cementati con calce; muraglia, realizzata probabilmente con la prima chiesa carolingia, che fu prolungata in direzione meridionale. L’accesso alla chiesa romancia non avveniva dal lato occidentale bensì da quello meridionale. Sul lato meridionale della chiesa romanica duecentesca si apriva l’unico portale d’accesso alla chiesa. Documenti testimoniano che i lati meridionale e occidentale della pieve romanica erano prospicenti su due piccole piazzette: ad occidente stava la “platea inferior” o di San Giovanni Battista per la presenza, in fondo alla piazza, del battistero; a meridione si estendeva invece la “platea superior” o di San Fedele. Quest’ultima serviva anche da sagrato della chiesa. Le due piazzette erano separate da un corpo di fabbricato che si estendeva per vari metri in direzione sud ed era costituito dal negozio, dal forno e dalla casa di un panettiere. Il pavimento della seconda chiesa doveva essere costellato da lapidi tombali andate distrutte con la costruzione della terza chiesa. Nell’ultimo quarto del XV secolo la seconda chiesa subì una radicale trasformazione: fu in gran parte demolita e sulle sue rovine costruita l’attuale “chiesa vecchia”.
La terza chiesa La trasformazione della chiesa romanica nella “chiesa vecchia”, l’attuale, avvenne mediante un ampliamento della superficie del tempio in tutte le direzione, ad eccezione di quella occidentale. Fu demolito tutto l’impianto absidale bilobato della seconda chiesa ed il nuovo presbiterio si estese in direzione orientale di parecchi metri, utilizzando parte del cortile-cimitero che prima era a ridosso del lato orientale della chiesa romanica. Sul lato settentrionale si utilizzò tutto lo spazio precedentemente occupato dall’ambulacro-chiostro delle prime due chiese e su quest’area venne costruita la navata settentrionale del nuovo tempio; la navata centrale corrispose invece alla superficie dell’intera precedente chiesa romanica; il lato occidentale della nuova chiesa restò quello del precedente tempio del quale utilizzò integralmente la muraglia di chiusura; la navata meridionale fu realizzata usando l’area della ex cappella di San Fedele, l’area del basamento del “toracium horarum” (del quale si salvarono i lati orientale e meridionale) e coprendo parte della preesistente “platea superior”. Il fabbricato che separava le due piazzette, superiore ed inferiore, venne demolito, in modo che tutto il fianco meridionale e gran parte del fianco occidentale della terza chiesa furono circondati da un’unica piazza o sagrato. I primi lavori di ristrutturazione si possono datare dal settembre del 1475. Nel 1480 venne decapitato e svuotato il “toracium horarum”, nel 1481 fu completata la nuova sistemazione del lato meridionale e l’anno seguente furono collocate su un nuovo campanile le campane fuse da un “magister Jacopus de Groppero”. La costruzione della terza chiesa avvenne tra il 1475 ed il 1525. A lavori finiti, il nuovo tempio era costituito da tre navate, con una grande abside presbiteriale per il coro e l’altare maggiore e una nuova porta principale d’ingresso inserita nella muraglia romanica occidentale. Sul lato meridionale la nuova chiesa mostrava due entrate: una era l’antico accesso, spostato più a sud di tutta la larghezza della navata meridionale; l’altro ingresso era stato aperto in corrispondenza della parete meridionale dell’ex cappella di San Fedele. Ma nel 1580 circa, su ordini emanati durante la visita pastorale di San Carlo Borromeo, venne abolito il secondo portale meridionale che sorgeva in corrispondenza della ex cappella di San Fedele e venne aperto invece un portale sul lato settentrionale, dove si trova ancor oggi, sacrificando un affresco murale realizzato un secolo prima. L’interno della “chiesa vecchia”, a lavori ultimati, risultò disposto in questo modo: la scuola del Corpo di Cristo (o del Santissimo Sacramento) ebbe il suo altare nella prima cappella della navata settentrionale dove, poco dopo il 1599, i Campi di Cremona dipinsero il grande affresco dell’Ultima Cena. Sul lato opposto, ricavato all’interno dell’ex “toracium horarum” ebbe sede la scuola del Santissimo Rosario con il suo altare; anche qui nel 1599 circa i Campi dipinsero un grande affresco allegorico raffigurante San Domenica che offre il rosario a papa Innocenzo XII. Dopo il 1653 la scuola del Santissimo Crocefisso potè porre in una cappella, su un altare particolare, il grande crocifisso che prima stava appeso al centro dell’abside tra la Madonna e l’angelo dell’Annunciazione. Come sede venne utilizzata la seconda cappella della navata meridionale della chiesa, cappella che venne ornata di barocche stuccature, dorature e pitture, e protetta da una cancellata in ferro. Prima del 1653, a spese del Comune, venne eretto, dirimpetto all’altare del Santissimo Crocifisso, nella navata settentrionale, l’altare dedicato a San Carlo che fu ornato da una pala. Appena sotto di questo, nel 1709, venne ricavato un altare con una piccola cupola; lo spazio occupato dalla nuova cappelletta era stato d’allora adibito a locale contenente una scala che già sul finire del Cinquecento garantiva l’accesso diretto alla chiesa dall’attigua arciprebenda. L’altare appena costruito fu dedicato a Sant’Antonio da Padova e venne trasferito nel 1773 al completo nella nuova parrocchiale. La cappella di fronte all’altare di Sant’Antonio (quindi la ex cappella di San Fedele) fino al 1580 racchiuse il secondo ingresso meridionale della chiesa, poi, dopo l’abbattimento del battistero esterno nel 1595, divenne la sede del vaso battesimale che qui rimase sino al 1780, data in cui venne trasferito nella nuova parrocchiale. Il pavimento della “chiesa vecchia” presentava quindici lapidi tombali dei secoli XVI, XVII e XVIII che chiudevano altrettante tombe di famiglia. Tra il 1751 ed il 1774 venne costruita la nuova chiesa parrocchiale in riva all’Oglio e già durante la fase di costruzione e, in particolare negli anni 1779-1780, vennero trasferiti nel nuovo tempio altari ,quadri e statue, così che nella “chiesa vecchia” alcuni altari rimasero spogli e vennero dedicati ad altri santi. Per oltre 150 anni continuò ad essere officiata come chiesa sussidiaria, subendo però le ingiurie del tempo. Timidi tentativi di restauro vennero eseguiti sia sul finire dell’Ottocento sia negli anni 1946-1947, anche se l’edificio restò sempre abbandonato e recuperato solo con la trasformazione della chiesa nell’auditorium San Fedele.
I restauri del 1977 Agli inizi del 1977 il Comitato pro restauri dell’auditorium San Fedele deliberò l’inizio di alcune opere di restauro ed ammodernamento, in particolare decise di rifare la pavimentazione e gli impianti tecnologici. Nell’estate del 1977 iniziarono le opere di scavo, completate nell’autunno-inverno del 1977-1978. A seguito dell’intervento, apparvero nella loro originale forma le strutture absidali relative alla prima chiesa carolingia, costituite da due murature concentriche collegate dalla pavimentazione originale e da quelle di una seconda chiesa medioevale costituite da un’abside centrale, da un’absidiola laterale e dalle fondazioni del “toracium horarum”. Vennero ritrovate pure due tombe appena sotto la porta centrale, orientate verso Est-Ovest. Per salvaguardare quanto ritrovato e offrire quella funzionalità richiesta all’auditorium, venne realizzato un pavimento “sopraelevato” lasciando due vani a quota inferiore. Il primo in corrispondenza della navata principale della chiesa, cui si accede dalla scala a chiocciola posta a sinistra dell’ingresso, l’altro invece in corrispondenza della zona ingresso laterale destra, esteso alla cappella destra, l’ex “toracium horarum”, ed a tutto il presbiterio.
Chiesa di San Anna
Antico oratorio ubicato nel rione della Riva, in via Matteotti, oggi denominato chiesa di Sant’Anna. Costruito verso il 1300 per merito dei monaci agostiniani, venne ampliato nel 1590. L’ospedale di Brescia vantava il diritto di patronato. La chiesetta venne restaurata a metà del Novecento grazie alla generosità di Gentile Lanfranchi.
Chiesa di Sant’Alberto
Chiesa del diciassettesimo secolo, si erige sull’antica strada per Pontoglio, oggi all’incrocio tra via Sant’Alberto e via Palazzoli di fronte al parco comunale della Protezione civile, meglio conosciuta come chiesa di Sant’Alberto. Sorge sulle rovine di un’antica cappella e nel 1795 venne dotata di due campane. Annualmente, il 7 agosto, si festeggia Sant’Alberto. All’interno la pala dell’altare maggiore è opera del pittore Giacomo Colombo, così come le pitture degli altari dei Santi Gaetano, Alberto, Erasmo e Pantaleone.
Gli affreschi sulle pareti laterali sono invece opera del pittore Carlo Carlone.
Santuario della Madonna di Lourdes
Santuario della Madonna di Lourdes: Chiesa situata in via Santissima Trinità, tra la Madonnina (oggi struttura protetta per anziani gestita dalla Casa di riposo don Ferdinando Cremona) e il complesso scolastico delle Suore Ancelle della Carità.
La storia L’erezione del Santuario è collegata con l’istituzione in Palazzolo dell’orfanotrofio femminile in quanto il Santuario fu concepito come un completamento degli edifici dell’istituto assistenziale stesso. I lavori terminarono nel 1889 su un terreno acquistato dai nobili Muzio. L’arciprete don Ferdinando Cremona lo volle nella forma e nello stile simile a quella della basilica di Nostra Signora di Lourdes, in Francia. Nel 1902 venne ampliato con le due navate laterali ed il coro, un piccolo sagrato sul lato libero della chiesa e la grotta della Madonna. Nel 1954 l’arciprete don Zeno Piccinelli, nell’anno santo mariano, provvide ad un restauro e in quell’occasione lo arricchì con dorature, mosaici e decorazioni. Un altro restauro si rese necessario nel 1979. L’ultimo restauro delle coperture e delle facciate è stato necessario nell’anno pastorale 2020-2021 con la benedizione dei lavori il 13 maggio 2021 con la presenza del Vescovo di Brescia mons. Pierantonio Tremolada.
Veduta esterna del Santuario Veduta interna del Santuario Grotta all’interno del Santuario